Il "Fascistometro" è un esempio di come non dovrebbe essere condotto un test serio. Metodologicamente, è progettato in modo tale che qualsiasi risposta porti a un risultato scontato: sei un po' più fascista. Le risposte sono polarizzate e provocatorie, e anche senza rispondere, il test ti etichetta come fascista. Questo approccio ricorda la banalizzazione del male di cui parlava Arendt, ma qui è usato in modo superficiale e ridicolo.
Il test utilizza un metodo che definisco "fascista" perché semplifica discorsi complessi in slogan, etichettando chiunque non si allinei a queste semplificazioni. Ad esempio, frasi come "aiutiamoli a casa loro" sono ridotte a slogan che non colgono la complessità della questione migratoria. Oppure, l'affermazione "ha fatto anche cose buone" ignora il contesto più ampio delle azioni di un dittatore, riducendo tutto a un giudizio superficiale.
Il problema più grande è la polarizzazione che il test crea, spingendo le persone a identificarsi con percentuali di fascismo come se fosse un gioco. Inoltre, la pretesa condiscendente di spiegare come non diventare fascista con un libro è irritante e inefficace. Infine, il test diluisce il significato di fascismo: se tutti sono un po' fascisti, allora nessuno lo è veramente, e questo minimizza la gravità storica del termine.
In sintesi, il "Fascistometro" è un esempio di cattiva pratica comunicativa e di banalizzazione di temi complessi, che non solo non aiuta a comprendere il fascismo, ma rischia di sminuirne la portata e la gravità.

In questa Puntata
Il "Fascistometro", un test promosso per lanciare un libro, viene criticato per la sua metodologia superficiale e polarizzante. Le domande del test, progettate per etichettare chiunque come fascista, riducono la complessità storica e sociale a slogan semplicistici, banalizzando il termine "fascista" e diluendo la gravità del fascismo stesso.